Toolkit/1: sharing economy
24 September 2013 - Impact Hub

Avete un’idea ma vi serve qualche suggerimento per cominciare? Volete aumentare l’impatto della vostra attività?

A darvi qualche dritta in più, d’ora in poi, sarà il nuovo Impact Hub Milano, con una serie di toolkit realizzati insieme ai nostri membri e alla rete di esperti che fa parte del nostro network internazionale. Al via la prima puntata per tutti gli affascinati dalla sharing economy!

Esperta: Marta Mainieri. Segni particolari: Hubber ed editorialista di Che futuro!Ha aperto Collaboriamo.org, la prima piattaforma italiana di servizi collaborativi, quelli che si collocano nel solco del fenomeno del momento: la sharing economy. A lei abbiamo chiesto dieci regole per chi vuole buttarsi nel settore.

1. Abbiate pazienza (tempo)Airbnb è un punto di riferimento per ogni startupper collaborativo. È il simbolo che il modello funziona. Quando sognando si spera di arrivare ai numeri ottenuti dal quasi colosso americano ci si ricordi sempre che Airbnb è sul mercato da sei anni e che anche questa piattaforma ha fatto molta fatica ad affermarsi. Nel 2011, a quattro anni dalla partenza, infatti, il servizio funzionava solo nelle città in caso di grandi eventi, ma nel resto del tempo non riusciva a decollare. «Lo lanciavamo e rilanciavamo ma niente accadeva», racconta Brian Chesky sul sito. Passavano i giorni a lavorare al progetto e le sere a confrontarsi con amici e fan su cosa non funzionava. Poi l’intuizione: usare professionisti per fotografare gli appartamenti offerti dalle persone. E il servizio è partito.

2. Cercate sempre di offrire valore e un’esperienza significativa. Non basta proporre un modello progettuale peer to peer per rispondere a un’esigenza delle persone. Cercate di capire se il vostro modello offre davvero un valore e un’esperienza reale. DogVacay, per esempio, oltre a mettere in contatto proprietari di cani e possibili ospitanti offre una funzionalità che permette di ricevere fotografie che aggiorna sullo stato di salute del proprio cane lasciato in custodia; ThredUp, servizio che rimette in circolo abbigliamento per bambini, pur ricevendo quasi 8.000 capi al giorno, interviene nel controllo e nella selezione di tutti i capi che riceve per dare garanzia e sicurezza sul prodotto.

3. Non inventate niente se non necessario (user experience). I servizi collaborativi digitali hanno un modello progettuale semplice. Mettono in contatto domanda e offerta. Questo si deve subito evincere dalla home page della piattaforma posizionando, per esempio, chiaramente nel mezzo quello che si cerca e in alto a destra quello che si offre. Niente da inventare basta copiare – bene – la maggior parte dei servizi americani sia in termini di organizzazione della pagina che di funzionalità. Molti servizi italiani lo fanno, molti altri no. Mantenere una struttura simile a quella di altri servizi collaborativi aiuta le persone a identificare la tipologia di servizio e a muoversi all’interno di esso con facilità.

4. Se la conosci la eviti (normativa) – È vero che l’Italia non è l’America. È vero che la nostra normativa forse è più severa (ma davvero?). È vero che finire nelle grane no, mai! Però nel considerare questo punto assai delicato ricordatevi che gran parte dei servizi collaborativi lanciati in giro per il mondo hanno gli stessi problemi dei vostri. La normativa va rispettata ma attenzione a non farla diventare un limite del vostro servizio. Se a causa della normativa non riuscite a esprimere quel valore aggiunto capace di far decollare il vostro servizio, piuttosto di perseverare rinunciate.

5. Andate laddove sono le persone (raggiungere massa critica). Il problema più grande per un servizio collaborativo è raggiungere massa critica. Fare in modo, cioè, che sul proprio sito ci sia un’offerta sufficiente affinché chi arriva, trovi quel che cerca. Spesso invece ci sono molte più membri registrati di quelli che, poi, effettivamente utilizzano il servizio. Come fare ad aumentare l’offerta? Andando là dove sono le persone senza aspettare che arrivino loro da voi (Ricordate Maometto e la montagna?). Significa quindi lavorare sul proprio target e pensare, possibilmente in maniera assillante, come raggiungerlo online e offline: mappare, per esempio, tutti i gruppi Facebook interessanti, comunicare con i blogger influenti nel proprio settore, conoscere gli eventi e le fiere a cui poter partecipare. Leah Busque prima ancora di lanciare TaskRabbit aveva testato il servizio andando a incontrare mamme e studenti. Si era seduta con loro nelle aule universitarie, in luoghi di lavoro, e aveva discusso con loro in rete. Chi fa lo stesso? Chi davvero fa questa mappatura?

6. Usate i social media (promozione) – Le persone sono raggiungibili anche attraverso i social media. Banale ma non troppo perché molti dei servizi collaborativi italiani per esempio non sono su Twitter e quelli che ci sono fanno una gran fatica a raccontarsi. E’ vero che è non è facile gestire un profilo sui diversi social network, ma è anche vero che è l’unico modo per promuoversi a costo zero. Fino a qualche tempo fa Etsy dichiarava che Twitter era il terzo più importante puntatore di traffico al sito.

7. Imparate a raccontarvi (promozione) – Chi siete, come vi è venuta l’idea, qual è il vostro obiettivo, in cosa credete. C’è tanto dentro di voi e dentro il vostro progetto, tiratelo fuori. Non c’è servizio collaborativo americano che non dedichi qualche pagina a spiegare come e perché è nata la loro piattaforma. Non abbiate paura a metterci la faccia e a raccontarvi, crea empatia e fidelizza.

8. Condite tutto con un po’ di soldi (Finanziamento) – Ho lasciato apposta questo punto per ultimo. È vero che in Italia i soldi sono pochi e si fa una gran fatica a ottenerli. È anche altrettanto vero che i soldi sono importanti. Andate a cercarli (in Italia e all’estero come già molti startupper fanno), ma nel frattempo fate tutto quello che si può fare senza soldi. Perché una buona idea ben perseguita, con pazienza e determinazione, può emergere anche senza l’intervento di un venture capitalist.